Serena Sinigaglia è la giovane regista che, insieme ad un gruppo di diplomati alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e da diplomati all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel 1996 fonda l’ A.T.I.R. (Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca), che ha sede a Milano e lavora in tutta Italia. Il nucleo stabile e continuativo dell’Associazione è composto da undici persone tra attori, regista, scenografa, organizzatrice e staff tecnico.
La Sinigaglia si presenta, ed introduce subito il sul lavoro suo e della sua compagnia. .
“La mia esperienza in teatro comincia quando avevo 18 anni, appena dopo aver finito il liceo. In realtà, prima del teatro, mi sono iscritta alla Facoltà di Lettere di Milano (Statale, perché alla Cattolica non sarei mai andata, visto che costa troppo e non mi sembra giusta come cosa, e dato che sono ebrea). All’università non trovo molti stimoli, e soprattutto non trovo, diciamo una richiesta di partecipazione, ed il solo studiare senza applicare mi fa presto sentire una forte necessità di cambiamento. Anche perché, per le persone della mia generazione (io ho 30 anni, presto 31), che si sono trovate vicine a delle ideologie alle quali poi non si poteva far cenno d’appartenenza senza il rischio di risultare reazionari, l’università ha avuto un ruolo particolare, dato che fu l’ambiente in cui si erano sviluppati i presupposti e gli avvenimenti del 68. Quindi in un certo senso l’esigenza critica fu talmente grande ed esistenziale che mi sono trovata spinta a cercare altre “vie” per la mia vita. Quindi, dopo vari altri tentativi in campi diversi, vado a provare l’esperienza teatrale. I laboratori all’epoca erano in un continuo crescendo numerico, e quello che vi si insegnava colpì più che altro la mia timidezza e riservatezza, senza molti stimoli positivi se non quello di cercare un posto in cui capire meglio cosa fosse il teatro. Avevo sentito dire che la scuola migliore a Milano era quella del Piccolo, per quello che riguardava la recitazione, e la Paolo Grassi per gli altri campi teatrali. Così faccio il provino e vengo ammessa al corso di regia, nonostante la mia sostanziale non preparazione, forse proprio grazie alla mia giovane età.
In occasione dello spettacolo da preparare per l’ultimo dei quattro anni di corso, per la mia prima regia scelgo di confrontarmi col classico dei classici, “Romeo e Giulietta”; in realtà era un testo che non mi piaceva molto, ma che avevo scelto forse, per dirla alla Goethe, per misurare la mia vocazione. Per lo spettacolo chiesi tutti gli attori della scuola, ovvero quelli che per quattro anni sono stati i miei compagni di corso,e me ne furono concessi 9 su 11. Lo spettacolo andò bene, e ci diede il via per fondare una compagnia nella migliore delle condizioni, cioè quella di avere già un gruppo collaudato e non scelto a tavolino. Nel gruppo c’era anche la mia scenografa, proveniente dall’Accademia di Brera e mia amica dall’infanzia. Così nasce l’A.T.I.R..”
–Secondo te, vale ancora la pena fare l’accademia, o le scuole di arte drammatica?
Non approfondendo il discorso che ci sarebbe da fare sulla possibilità, esistente o meno, di insegnare ed imparare l’arte, il canale d’accesso per fare qualsiasi tipo di mestiere sembra essere comunque quello delle scuole, se non per imparare almeno per cominciare a conoscere un determinato ambiente. A parte l’aspetto formativo, la Paolo Grassi a me ha dato la possibilità di conoscere registi che facevano teatro e che non avrei potuto incontrare altrimenti: Vacis, Dall’Aglio, Armado Puzzo ed altri.
E poi conoscere persone come quello con cui ho costituito la mia compagnia.
Comunque, un altro modo per fare teatro è farlo, e farlo subito, anche se effettivamente è la via più difficile, anche perché è il mercato stesso a spingerti verso la scolarizzazione.
–La presenza femminile nel teatro è spesso limitata all’ambito attoriale, e le registe in realtà sono molto poche. Perché?
Evidentemente perché la posizione della donna non è arrivata ad una reale emancipazione, quindi ci sono dei ruoli, vedi ad esempio la regia, che per antonomasia sono sempre appartenuti al maschio, soprattutto in un paese come il nostro che a volte sembra fermo all’età dei comuni. .
Quando ho cominciato a lavorare, ad andare in giro per fare spettacoli ho riscontrato subito un problema ascrivibile a questo discorso dell’essere donna e regista: ho avuto un impatto forte per esempio con i tecnici, che per il solo fatto che fossi donna presupponevano che io non sapessi niente al livello tecnico, cosa tra l’altro vera, ma che dipendeva dalla mia giovane età e quindi ad un fattore di inesperienza. C’è anche da dire che comunque la regia è un campo decisamente molto giovane rispetto, per dire, alla recitazione; quindi essendoci poche scuole che si occupano di regia in modo valido, ed essendo la domanda e l’accesso femminili molto ridotti, ecco che una parziale spiegazione vien fuori. Per non parlare del fascino che continua ad esercitare qui in Italia la figura del mattatore, del capocomico. E poi perché è davvero da poco tempo che l’accesso a determinati posti è aperto anche alle donne, e questo non soltanto in teatro, basta guardare a quante donne che fanno politica ci sono….
-Nella tua compagnia, oltre agli attori, ci sono anche tecnici e altri componenti?
Nel corso del tempo, avendo problemi coi tecnici, tramite le forze del gruppo ho trovato una persona che poi è diventata il mio direttore tecnico e che si occupa appunto di fronteggiare l’allestimento degli spettacoli quando arriviamo nei teatri. Questa persona ha poi trovato altre persone che gli sono affini nel modo di lavorare e che quindi collaborano con noi.
-Come ti approcci al testo, come nasce lo spettacolo?
Non c’è mai una sola componente e dipende da spettacolo a spettacolo. Per esempio “Lear- ovvero tutto su mio padre” è nato quando ho visto Tutto su mia madre di Almodovar, che mi ha dato il coraggio di parlare della morte di mio padre, ma non per raccontare i fatti tuoi alle persone, piuttosto per fare un’auto catarsi del mio sentimento attraverso le parole di qualcun altro. E quindi ho scelto il testo che meglio incarnava questo mio sentimento, soprattutto perché c’erano delle corrispondenze proprio biografiche e famigliari con i personaggi del testo di Shakespeare, il Lear, che poi è un testo che avevo già approfondito alla scuola per un seminario di. E nonostante alcune sfasature strutturali, come per esempio la mancanza del mattatore, della presenza forte di un attore nelle vesti di Lear, o la mia giovane età forse non adatta per parlare dal punto di vista di un genitore, mi sono detta che o lo si fa da vecchio o lo si fa da molto giovane, avendo un punto di vista preciso. Quindi scelsi il punto di vista di una figlia che il genitore l’ha perso, ed ho parlato di quel malinconico e struggente senso di mancanza che è così splendidamente espresso da Lear e dalle sue vicende.
“Romeo e Giulietta” è stato il confronto con il classico dei classici, che tra l’altro non mi piaceva. In tutte le edizioni del testo che avevo visto erano noiosi, con Giulietta e Romeo bellissimi, da fotoromanzo, per non parlare delle edizioni degli anni 50 con una Giulietta 50enne che parlava come un’adolescente. Per di più avevo 20 anni, e non conoscevo Shakespeare, mi annoiava, non capivo tutte le sue figure retoriche, le costruzioni iperboliche. E se non si fa pratica concreta di autori come Shakespeare, lontani nel tempo, non puoi sentirli tuoi, vicini. Poi con la pratica quotidiana ho capito che quell’uso del linguaggio aveva una cognizione precisissima del senso della vita.
“Baccanti” conteneva un’energia affine a me, e l’ho voluto perché volevo andare in Albania, e nel mio cervello “Baccanti” e l’Albania erano connesse, ed infatti alla fine ci sono andata. Comunque l’importante è che l’opera d’ arte nasca da una necessità, che ci sia una spinta dietro. Dei miei spettacoli quelli che amo di meno sono quelli che non hanno avuto dietro questa spinta. In un certo senso comincio a lavorare nell’impulso informe di uno spettacolo di cui non conosco gli esiti, per dirla con Peter Brook.
-Nei tuoi spettacoli preferisci usare musiche originali o musiche di repertorio?
Uso materiale di repertorio, sia dal vivo che registrato, perché ancora non ho fatto l’incontro con un compositore con cui è scattata, diciamo, la scintilla. E’ lo stesso discorso che si fa con la scrittura, si procede per tentativi. Poi il ritmo produttivo imposto dallo stato ti costringe a scegliere di che cosa occuparti, e visto che degli attori e del testo, ovviamente, non si può non occuparsi, per la musica mi affido all’enorme quantità di materiale a disposizione almeno finché non avrò l’incontro con il compositore. E poi la musica contemporanea è un po’ in crisi, soprattutto per quello che riguarda le musiche per teatro.
-Le scenografie come nascono?
Nell’opera lirica la scenografia, come tutto il progetto di regia, vengono stabilite prima, tutto nei minimi dettagli decisi precedentemente.
Nella prosa invece tutto è più variabile, ed ognuno lavora a suo modo. Con Maria, che è la mia scenografa da anni, decidiamo due tre linee guida della scena, e poi le immettiamo nelle prove, e vengono provate con gli attori, infatti vedendo le nostre scenografie si nota che queste vengono sempre usate dagli attori. Non ci sono scenografie statiche, e queste vengono usate dall’attore così come le parole.
-Come mai la scelta di dedicarti anche alla lirica?
La lirica l’ho cominciata per caso seguendo la possibilità di guadagnare, data la scelta fatta con la mia compagnia di lavorare insieme e quindi di avere tante bocche da sfamare e visto che comunque si tratta di un campo che al livello economico ha tutt’altre risultanze rispetto al teatro di prosa .
-Dal punto di vista della formazione, a parte la scuola, quali sono i riferimenti teatrali, e culturali in genere, che continui a seguire?
Personalmente sto seguendo due percorsi, in un certo senso paralleli. Da una parte lavoro con il teatro classico, che comunque riesce a darti le dimensioni e le competenze diciamo più tecniche della rappresentazione; per questo ho portato in scena “Le Baccanti”, oltre a “Giulietta e Romeo” e “Lear”. Dall’altra c’è, in un certo senso, la costruzione della mia coscienza, una coscienza politica difficoltosa da reperire per quelli della mia generazione, per questo sto lavorando su uno spettacolo sul ’68, per il quale sento il bisogno di “prepararmi” sui mutamenti e le figure storiche che hanno influenzato il 900. In questa chiave sono stati realizzati gli spettacoli “Che. Vita e morte di Ernesto Guevara” e “Rosa la Rossa”, dedicato a Rosa Luxemburg.
Per quello che riguarda la drammaturgia contemporanea invece ho diretto “Natura morta in un fosso”, di Fausto Paravidino, oltre ad un testo ricavato da “Lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea” di Malvezzi e Pirelli che ha dato vita allo spettacolo “Come un cammello in una grondaia”.
-Quali sono i lati negativi e “stretti” di questo lavoro?
Probabilmente il problema più grande è quello economico, in sostanza, la fame, perché oggi una compagnia ha due possibilità per lavorare, quella privata e quella statale. Il teatro di qualità in Italia fino ad oggi è stato quello statale, quando si tratta invece, per dire, di Grease o di Glauco Mauri, privato. Di recente, con tutto il sistema economico in mutamento verso una sempre maggiore privatizzazione, il teatro si è trovato impreparato in quanto, quello di qualità almeno, si è sempre basato sui finanziamenti, finanziamenti che poi sono sempre stati ripartiti dal Ministero in percentuali profondamente diseguali tra la lirica, che prende la fetta più grande, il teatro di prosa e la danza. Di questi finanziamenti destinati allo spettacolo, tra l’altro in cifre tra le più basse in Europa, quelli riservati al teatro di prosa coinvolgono anche i teatri stabili, quindi i grandi teatri come l’Argentina e le relative spese. Quindi a questo punto la compagnia per sopravvivere si può affidare o ad un prodotto capace di vendere, uno spettacolo di grosso richiamo affiancato da una buona strategia di marketing, oppure deve affidarsi ai contributi dello stato. Il teatro non è un mass media, non può raggiungere la quantità di persone raggiunto per dire dal cinema, quindi anche spettacoli grandi di prosa possono al massimo fare 500 persone, con grosse spese di affitto per teatri di tale capacità. Così con la mia compagnia abbiamo tentato di accedere ai fondi dello Stato, ed all’epoca in cui Veltroni era al Ministero della Cultura ci fu una specie di corollario alla legge che istituiva una sorta di praticantato per giovani compagnie con determinate caratteristiche, ad una retribuzione a cui avrebbero avuto accesso per i due anni seguenti. Se in quei due anni la compagnia avesse dimostrato di saper gestire i contributi assicurando un determinato numero di spettacoli e repliche, allora avrebbe avuto accesso a quella piccola fetta di contributi con la quale lo Stato manteneva in vita anche i suoi teatri stabili. Noi li abbiamo ottenuti, insieme ad altre 5 compagnie in tutta Italia, nel 97, abbiamo fatto i due anni ed ora prendiamo quanto stabilito avendo “passato” i due anni di praticantato. In cambio di questi fondi, però, lo stato chiede le giornate lavorative ed il borderau, che dimostra che le repliche, circa 80 l’anno, sono andate in scena e sono richieste un certo numero di giornate lavorative pagate, ovvero la testimonianza che la nostra “azienda” produce lavoro e paga i contributi a chi vi lavora all’interno. E, tanto per dire, quest’anno i contributi che abbiamo pagato sono stati di più di quanto abbiamo ricevuto. Molti teatranti già da un po’ si domandano se abbia senso accettare queste condizioni, e se non abbia più senso gestirsi autonomamente e lavorare per istituzioni private.